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giampiero vigorito
Giampiero Vigorito
La prima biografia italiana di un genio della musica
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Copertina Libro Bacharach

BURT BACHARACH
THE BOOK OF LOVE
NELLA VITA E NEI RICORDI DEL PIÙ GRANDE GENIO DEL POP
AUTORE: GIAMPIERO VIGORITO
EDITORE: CONIGLIO EDITORE
COLLANA: SOUNDCHECK
PAGINE: 240 con due inserti di foto a colori
PREZZO: Euro 16,50

 

Estratti del libro

BUSH, L’11 SETTEMBRE E LA GUERRA IN IRAQ...
Dall’11 settembre la coscienza americana è impazzita. Il dolore di quel giorno ci ha stordito, con il fragore sordo delle Twin Towers che cadevano giù come in uno di quei set hollywoodiani che Cecil B. DeMille allestiva per i suoi kolossal biblici. Gigantesche e rassicuranti metafore del progresso, per anni protese verso il cielo, si sfarinavano nel vuoto delle nostre coscienze. Lasciandoci ammutoliti. Cenere che ritorna cenere. E questo, in un tempo inferiore al più ridicolo refrain di una mia canzone. In tutta la mia vita non mi sono mai occupato di politica, addirittura ci sono state elezioni durante le quali non mi sono neanche degnato di seguire i risultati delle presidenziali sulle televisioni via cavo. Non ho mai manifestato, non ho mai fatto marce di protesta, nemmeno ai tempi del Vietnam. Sono sempre rimasto “quello” che scrive canzoni d’amore. Ma le cose sono cambiate. Da quel giorno si è aperta in me una ferita profonda. Ho pensato ai miei figli. Soprattutto ai più piccoli: a Raleigh, la bambina di nove anni, ma anche a Oliver e Christopher, i due ragazzi di dodici e diciannove anni. Ho pensato a loro. Al futuro che li aspettava. L’esperienza mi induce a pensare che non è soltanto per loro che ho avvertito questo senso di vuoto e di rabbia. Non è insorto in me solo lo spirito del vecchio padre che, prima o poi, avrebbe dovuto giustificare ai suoi figli le insensatezze di un mondo barbaro e senza codici. Era stato facile, in passato, ritrovarci a sciare sulle nevi di Aspen o di Salt Lake City, a riscaldare la stanza sedendo intorno al pianoforte per sincronizzare le canzoni di Natale al ritmo delle luminarie dell’albero addobbato. Ma ora il presente esigeva una reazione diversa. Fuori non c’era nessuna slitta scampanellante con le renne di Santa Claus. C’era solo il calpestio strozzato della marcia di un grande popolo in ritirata, con i piedi freddi e il gelo sugli occhi. Per un po’ di tempo mi sono limitato ad annusare l’odore di una vita che sembrava ormai essere cambiata per sempre. Ovunque, in America, si respirava il fumo acre di quelle stanche piramidi di polvere inginocchiate su se stesse. Una polvere che, come un’eclisse di sole, aveva oscurato il nostro orizzonte. Col tempo quella polvere me la sentii in gola, fino al punto di non respirare. All’inizio, l’incendiario arcobaleno di morte scagliato alle spalle di un’America incredula di essere così vulnerabile, mi aveva fatto ritenere opportuno l’intervento in Iraq. Avevo creduto alla faccenda delle armi di distruzione di massa in mano a Saddam. Presto abbiamo saputo come stavano realmente le cose. Uno come Colin Powell, persona che ho sempre stimato, si era ritrovato con la credibilità distrutta dopo essere stato costretto ad andare alle Nazioni Unite a sostenere che Saddam era armato e andava fermato. Cominciai a infuriarmi contro l’Amministrazione americana, per l’incapacità di Bush di prendere qualsiasi decisione e della sua malafede nell’aver parlato pretestuosamente di armi nucleari. Rividi davanti ai miei occhi decine e decine di volte le immagini delle Twin Towers ferite a morte. Ogni volta sentii alzarsi dei suoni distorti. Il rombo singhiozzante del cemento armato e del vetro che, polverizzandosi, incrociava sinistramente la melodia di una delle mie love song. Rividi il disegno delle Torri Gemelle che si sovrapponeva a quello del Brill Building, la mia vecchia scuola di Manhattan, appena lì dietro. L’arca delle nostre passioni musicali e della nostra giovinezza che si guardava intorno, disorientata; emetteva anche lei un suono cupo, come di un’enorme balena arenata nella sabbia di quelle macerie. Nella nemesi del titolo del film che mi aveva fatto conoscere e collaborare con Elvis Costello sentivamo che una malaria contagiosa stava minacciando la nostra “ grazia nel cuore”. Lo skyline era diverso anche intorno al mio Brill Building. Era diverso per ognuno di noi. Tutti abbiamo gridato e pianto e pregato, o chissà cos’altro. Ma tutti, all’unisono, abbiamo sentito un senso profondo di vuoto. Quel Ground Zero non è solo il ricordo simbolico di quello che accadde quel giorno. Il luogo di una ferita non rimarginabile. Ma è il vuoto dal quale ognuno, a suo modo, ha deciso di ripartire. Il mio Ground Zero è stato quello di smettere di scrivere canzoni d’amore e di dare voce alla mia indignazione. Per la prima volta nella vita stavo cambiando le regole del gioco. I sei Grammy Awards e i tre Oscar si stavano squagliando in un braciere di rabbia e impotenza. E con loro, come ricci di paglia incendiati dall’alcol dei sofisticati cocktail dei nostri party migliori, bruciavano le 9 canzoni Top One, le 48 che avevano tagliato il traguardo delle Top Ten e gli oltre 500 brani composti in sei decadi.[…] In passato qualcuno mi aveva descritto come il musicista capace di cadere da una motocicletta in corsa e di scrivere una melodia raffinata pochi istanti prima di sfracellarsi sull’asfalto. Questa volta era diverso. Quello che provavo non poteva essere raccontato con uno schiocco di dita. Ogni dettaglio doveva essere più ragionato. Nessuno di noi stava cadendo da una motocicletta ma dalla cima più alta delle proprie illusioni. Il nostro compito era già segnato. Dovevamo trovare le parole giuste per spiegare un grido di angoscia. E’ per questo che, necessariamente, la musica ha cercato di superare lo sgomento che ci ha trafitto il cuore con uno slancio verso la classe e l’eleganza. Come ha scritto un critico musicale: «questo disco è un pugno allo stomaco con un guanto di velluto». At This Time è una raccolta di umori, di dubbi, di istantanee sul mondo che ci circonda, su chi siamo diventati e su quello che ci sta accadendo intorno. In questo senso non è solo un disco politico ma anche esistenziale. E’ la voce del disappunto che tutti noi abbiamo provato negli ultimi anni. Mentre lo stavamo realizzando c’è stata la tragedia dell’uragano Katrina. L’amministrazione americana ha mostrato, ancora una volta, tutte le sue incapacità e le sue contraddizioni. La guerra “lampo” in Iraq non era stata una marcia trionfale ma un colossale bagno di morte. Migliaia di ragazzi a combattere e a sacrificare la vita per una cosa di cui non percepivano neanche una sola valida ragione. Durante l’uragano è stato impressionante vedere la guardia nazionale, l’esercito o i riservisti muoversi impotenti in mezzo ai corpi che galleggiavano tra le mefitiche macerie di New Orleans. Abbiamo tutti stampate nella memoria le immagini del terrore negli occhi dei diseredati, la paura dei bambini dispersi, le case storiche con i tetti spazzati via con la leggerezza di un ombrellino da aperitivi. E poi l’enorme Superdome, che avevo visto scintillare maestoso decine di volte in TV per qualche partita di basket dell’NBA o per la finale del Superbowl, trasformato in uno scheletrico e apocalittico lazzaretto, a un brulicante formicaio per l’ultima svendita sottocosto di un’umanità disperata. I mezzi anfibi dell’esercito americano giravano impotenti in quella immensa palude di sofferenza, tra gli incendi che progressivamente incenerivano i vecchi palazzi in legno dei quartieri francesi. Sembrava l’ennesimo film sul Vietnam, con la follia e la violenza che dilagavano come tori di una corrida di strada in ogni angolo della città. Tra i bagliori delle fiamme che incendiavano d’improvviso, come napalm, intere pozze d’acqua. Un popolo di morti, di feriti e di fantasmi ci guardava straziante, come creature di un quadro apocalittico di Bosch. Il corpo sinuoso di una storia musicale senza tempo affogava in una latrina nauseabonda, dimenandosi impotente. Dov’era Allen Toussaint? Quale ondata che non fosse stata mossa dal ritmo folle del suo piano lo aveva investito? E che fine aveva fatto Irma Thomas, la mia adorata Regina di New Orleans? La calda voce di “Long After Tonight Is All Over” e di “Live Again”? In quale gorgo più profondo della sua anima era stata inghiottita? Il finanziamento che doveva essere assegnato agli aiuti impegnati per quella catastrofe era stato portato via, ancora una volta destinato alla guerra in Iraq. E Bush a balbettare discorsi inutili alla nazione; senza probabilmente nemmeno rendersi conto che quel disastro nel cuore degli Stati Uniti era l’emblema della sua vana e terribile guerra contro gli spettri di Saddam. Non si trattava più dell’ossigeno che riempiva i tubicini di gomma di un ventenne ispanoamericano ferito a morte a Fallujah, ma il cancro scoppiato nelle viscere di una Nazione ormai già invasa dalle metastasi dell’indifferenza.

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