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giampiero vigorito
Giampiero Vigorito
La prima biografia italiana di un genio della musica
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Copertina Libro Bacharach

BURT BACHARACH
THE BOOK OF LOVE
NELLA VITA E NEI RICORDI DEL PIÙ GRANDE GENIO DEL POP
AUTORE: GIAMPIERO VIGORITO
EDITORE: CONIGLIO EDITORE
COLLANA: SOUNDCHECK
PAGINE: 240 con due inserti di foto a colori
PREZZO: Euro 16,50

 

Estratti del libro

L’EREDITÀ...
Negli anni ’70 le femministe giudicarono patriarcali i ritratti coniugali di “Wives And Lovers” e la durezza del rock fece a brandelli ogni concetto di eleganza bandendolo come vacuo e reazionario. In tutto quel periodo avevo più cavalli piazzati che 45 giri da pubblicare. Negli anni ’80 le mie canzoni erano ormai tollerate con sarcasmo come fossili di un’epoca scomparsa. Vuoti relitti di un transatlantico da crociera inabissatosi per lo scontro con l’iceberg delle mode. La società aveva sbriciolato quell’iceberg in milioni di cubetti di ghiaccio da servire con gli aperitivi. L’easy listening continuava a essere relegata a musica per vecchi playboy in disarmo, con i vestiti impregnati di acqua di colonia, i guanti per guidare l’auto sportiva, un sorriso fresco di dentista e l’abbronzatura perenne. Roba da sorseggiare al massimo in una convention di manager dell’American Express; pronta a essere shakerata in qualche cocktail mentre nel salotto si parlava candidamente di macchine e amanti. Poi, in Inghilterra, proprio dove avevo seminato i grandi successi di Cilla Black o Tom Jones, gruppi come i Pet Shop Boys di “What I Have Done To Deserve You”, gli Smiths di “Hand In Glove” o la British Electric Foundation (un progetto dei ragazzi degli Human League), proprio con una cover della mia “Anyone Who Had A Heart”, cominciarono a prendersi le loro emozioni in stile musical ripescando cantanti come Dusty Springfield o Sandie Shaw. Con il profumo di una nostalgia più potente di qualsiasi arma di devastazione punk, quei gruppi si erano accorti che restituire la bellezza a una canzone era il più grande gesto rivoluzionario che si potesse fare. Un giornalista inglese, parlando della mia riabilitazione ha scritto: «Questo è l’uomo che con il fruscio di un battito d’ali di farfalla ha fatto atterrare sugli anni ‘60 i suoi capolavori orchestrali e che ha inondato il mondo occidentale con torrenti di lacrime di gioia. Che stia ancora avendo successo come un arzillo sessantenne in giro per le strade di Londra non deve stupire. Ma, attenzione, perché le canzoni che ha creato più di 30 anni fa sono ancora in fase di riscoperta da parte di tutti quei mocciosi del pop abbagliati dalla celebrità. L’esplosione è appena cominciata!» Quelle prime schiere di artisti hanno capito che la mia musica non era soltanto un Martini da bere per inaugurare l’impianto dell’aria condizionata nella villa o il trucchetto per trasformare un ritrovo tra amici condannati all’ennesimo barbecue in giardino nel party mondano del jet set in un superattico di Manhattan. Con l’illusione di indossare uno smoking al posto delle tute da ginnastica formato XL. Nel momento in cui stavano ancora dominando le emozioni più grezze, Elvis Costello, Sade, Lloyd Cole, Sade, gli Smiths, gli Style Council, i Prefab Sprout, gli Scritti Politti, i Swing Out Sister avevano cominciato a imporre la magnificenza di un arrangiamento di violini senza temere di essere presi a calci dal sistema discografico[…] Poi, dalla metà degli anni ’90, l’ondata di entusiasmo ha continuato a trasmettersi a molti artisti e progetti disseminati in tutto il mondo: Ivy, Mr. Bungle, A Girl Called Eddie, Richard Hawley, Eric Matthews, Thaiti 80, Cousteau, Mark Eitzel, Jay, Bejole, St.Vincent, fino a Duffy (una delle eroine, insieme a Amy Winehouse, della nuova ondata blues) che ha ripreso nel 2008 la mia “Please Stay”. Il mondo ha ripreso improvvisamente a pronunciare il mio nome. Non passava una settimana senza che uscissero cover dei miei brani o articoli sulla stampa inneggianti al mio passato. Per alcuni idoli del periodo ero diventato un padre spirituale. In un’intervista Noel Gallagher degli Oasis puntualizzava le cose dichiarando: «Prima si consideravano le musiche di Bacharach solo dei mausolei del kitsch, degli espedienti discografici per lacrimazioni da discount o, al limite, dei classici del disimpegno e del facile consumo. In realtà, le sue canzoni con Hal David erano profonde, complicate e piene di un cinismo terribilmente moderno». In effetti, quei brani che sembravano reclamare il coro delle emozioni di massa, erano nati masticando l’amarezza della solitudine o lacerandosi invano intorno al senso di un abbandono. Non erano una macchia di champagne sul vestito versata da un flûte durante una festa. Nelle vicinanze non c’era un divano in pelle accarezzato dalle calze di seta delle ragazze e neppure un tipo, all’angolo del salotto, che gratificava gli estranei raccontando come, ad un certo punto, la sua vita fosse diventata tremendamente difficile ma che certi dischi l’avevano aiutato a tornare a galla. E che, con una Marlboro tra i denti, concludeva sentenziando: “Beh, sì, la musica è una cosa che ti fa sentire bene!”[…] Proiettate sul grande schermo della vita, quelle canzoni intrecciavano la leggerezza dei gesti quotidiani con la pesante condizione di una società che rischiava di rimanere ferita e oppressa dalla malinconia. Solo che, anziché mascherare quei lividi sotto bende di garza, li mostravano con orgoglio come un segno di vita. Sembrava a quel punto che l’irreversibilità del destino riservasse qualcosa di inestimabile per ognuno. L’eleganza quasi metafisica di quello che muoveva l’aria celava un’idea essenziale. L’idea secondo la quale la bellezza non è fatta per celebrare il mondo materiale, esteriore che ci circonda; ma per permettere a nudo il mondo spirituale, interiore che è dentro di noi. La musica ha seguito il percorso di una delle mie prime composizioni: il brano guida del film “The Blob”. La paura del contagio è stata volutamente contrastata da una canzone spensierata, capace di neutralizzare le paure dei grandi in una specie di motivetto infantile. Quella sensazione di assorbimento nutriente e inconsapevole che Noel Gallagher, Michael Stipe e altri come loro avevano raccontato, è avvenuta in un bagno amniotico, in ambienti che sembravano sterilizzati, come in una nursery dove qualcuno aveva scelto l’ovattato sottofondo per l’imprinting migliore. Poi, poco più in là, è arrivata quella sensazione di emancipazione e di segreto accesso al mondo dei grandi. Quella musica, come un Blob gelatinoso e fosforescente, ha cominciato a gocciolare dagli altoparlanti nascosti dei grandi magazzini, nelle sale d’attesa degli studi dentistici, dalle strade gonfiate dal traffico. «Non sapevo di preciso di cosa si trattasse», ha scritto il critico Jim Emerson esplorando i suoi ricordi. «Rammento tutto vividamente, ma non saprei dire perché. A me bastava così, non volevo che qualcuno mi spiegasse niente. A ripensarci adesso credo fosse una sorta di esperienza necessaria. Ero un ragazzo affamato di conoscenze che si era imposto di non fare domande. Aspettavo quelle canzoni come dispacci dal fronte. La radio negli anni ’60 e ’70 era uno strumento democratico. Prima dell’invenzione del walkman e dell’isolamento delle cuffiette, è stata la colonna sonora della nostra vita collettiva, un’esperienza comune più che individuale. Nel 1971, Tom Clay, un dj di Los Angeles, fuse “What The Worl Need Now Is Love” con la ballata politica “Abrham, Martin & John” e la combinò con il sonoro dei telegiornali che parlavano degli assassini di Martin Luther King, di John e Bob Kennedy e con gli effetti sonori della guerra in Vietnam o degli scontri contro la segregazione razziale. L’estate di quell’anno il disco entrò nella Top Ten. Burt Bacharach, Marvin Gaye, Abramo Lincoln, Martin Luther King e i Kennedy avevano dato vita al più grande e doloroso mix della storia».

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