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giampiero vigorito
Giampiero Vigorito
La prima biografia italiana di un genio della musica
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Copertina Libro Bacharach

BURT BACHARACH
THE BOOK OF LOVE
NELLA VITA E NEI RICORDI DEL PIÙ GRANDE GENIO DEL POP
AUTORE: GIAMPIERO VIGORITO
EDITORE: CONIGLIO EDITORE
COLLANA: SOUNDCHECK
PAGINE: 240 con due inserti di foto a colori
PREZZO: Euro 16,50

 

Estratti del libro

L’ULTIMA BALLATA DI NIKKI, LA FIGLIA SUICIDA...
Fuori fa freddo. Un freddo che ti gela il sangue. Il Natale appena passato ha fatto del suo meglio per vestire questo gelo con i suoi panni caldi e premurosi. Ma i primi giorni del nuovo anno si sono liberati da quella teporosa carezza per essere inondati da una delle peggiori ondate di maltempo che la California possa ricordare. Per regalarmi una prospettiva diversa, me lo sono voluto gustare attraverso le finestre di un ospedale di Los Angeles dove ero stato ricoverato proprio il giorno della vigilia per una frattura alla spalla dovuta a una caduta mentre portavo a spasso il cane. Nel mio sismografo interiore, quel banale incidente ha cominciato a far sussultare i sottili aghi della mia percezione emotiva. Ho avvertito il principio di una scossa ben più profonda. Come di un terremoto proveniente dalle viscere della terra che stava rapidamente esplodendo verso la superficie. Presto, la mia confortevole condizione di malato ultrasettantenne alloggiato in una stanza per vip di un elegante reparto ortopedico sarebbe stata immobilizzata da un gelo più forte di quello che si percepiva oltre le finestre. Il terremoto di ghiaccio mi ha travolto. Mi sono sentito come un giocatore di hockey scaraventato con forza dall’avversario contro la balaustra. Solo che la spalla aveva smesso di farmi male, e anche il mio corpo sembrava assente, come se fosse uscito dal suo involucro e io avessi perso del tutto il suo controllo. Probabilmente, proprio come deve essersi sentita mia figlia Nikki prima di darsi la morte. Rarefatta. Leggera. Fuori dal suo cono d’ombra nero e senza luce. Finalmente liberata da un peso ormai insopportabile. Ne parlo adesso, dieci giorni dopo la sua morte, mentre tutte le radio diffondono ancora “Nikki”, la canzone che composi per lei dopo la sua nascita prematura. La versione che si sente adesso è uno strumentale arioso, con degli archi pieni di colori delicati e un coro che ho cercato di rubare agli angeli. Su tutto svetta il suono di un sax che sembra rincorrere una melodia pura e infantile. Quando la registrai chiesi ai maestri dell’orchestra di essere concentrati al massimo durante l’esecuzione e di trasmettere nel brano tutta la poesia e l’incanto della mia piccola bambina. In lei erano impresse le stimmate di una fragilità che, come era subito apparso con chiarezza, la natura le aveva marchiato a fuoco; quasi fossero il sigillo doloroso di una esclusiva via di accesso verso la purezza e l’unicità. Il testo originale che aveva scritto Hal David per la versione cantata del brano cercava di raccogliere tutta la nostra tenerezza per una creatura così delicata[…] Un testo che, a rileggerlo oggi, sembra raccontare la storia della mia solitudine e della mia impotenza di fronte a una irrimediabile diversità. Quella che aveva costretto Nikki a lottare contro la Sindrome di Asperger, una grave forma di autismo. Ancora adesso, quelle parole sono il codice identificativo di un’esistenza perennemente schiacciata dai suoi violenti spasmi di vita e di morte, di luce e di buio. Ora, dopo quarant’anni, Nikki aveva deciso di liberarsi da questa tortura e di inghiottire definitivamente l’ultimo sorso di vita. Le agenzie riportarono stringatamente quanto aveva dichiarato Mike Feiler, il coroner di Ventura County: cioè che verso le 8 della mattina di giovedì 4 gennaio 2007 il corpo di Lea Nikki Bacharach era stato trovato nel suo appartamento nel quartiere di Thousand Oaks, a nord di Los Angeles. Nikki si era suicidata soffocandosi con un sacchetto di plastica gonfiato con l’elio. L’indomani i giornali riportavano il testo del comunicato che avevo raccolto insieme alla mia ex moglie Angie Dickinson, la mamma di Nikki, e che avevamo diramato alla stampa attraverso Linda Dozoretz, la nostra portavoce: «La ragazza ha commesso suicidio in modo quieto e tranquillo per sfuggire alla devastazione inflitta al suo cervello dalla Sindrome di Asperger. Amava i gattini e i terremoti, le piogge di meteoriti e la scienza, i cieli senza nuvole e i tramonti, e amava Tahiti. E’ stata una delle più belle creature della terra e ora lei è in una luce bianca, in pace». In un crudele gioco del destino, alla figlia di uno dei compositori più popolari del pianeta, il designer di canzoni d’amore lucenti e cromate come il cofano di una Corvette, era preclusa la possibilità di abitare quel mondo. Di vedere le sue mille luci, di ascoltare quell’effluvio indicibile di suoni, di muoversi e ballare come un vento di primavera tra i rami scrocchianti delle magnolie. La sua menomazione l’aveva condannata alla quasi totale cecità, e il suo cervello era ipersensibile agli odori, ai suoni e ai sapori. Fu così, nella stanza di un ospedale, qualche giorno dopo aver annullato per i miei problemi alla spalla la tournée in Australia e Nuova Zelanda e posticipato il concerto alla Walt Disney Concert Hall, che seppi della morte di Nikki. Chiusi gli occhi con lei. Cercando per un attimo di fissare quella forma di buio che progressivamente aveva preso a oscurare il suo sguardo. Di capire in che modo le mie morbide, quasi amorevoli canzoni, fossero state per lei come un assordante e furibondo bombardamento contro la sua fragile sensibilità ai suoni. Continuavo a ripetere dentro di me il ritornello di quella canzone: “Nikki, it's you/Nikki, where can you be?/ It's you, no one but you for me/I've been so lonely since you went away/I won't spend a happy day/'til you're back in my arms”. Lo ripetevo dentro di me come una preghiera infinita. Senza avvertire se aveva il suono straziante di un canto sciagurato o la cadenza aerea di un’ elegia liberatoria. La natura aveva compresso ogni cosa nel mondo di Nikki. In lei c’era tutto. La luce infinita e il buio senza ritorno, l’inferno e il paradiso. In lei brillavano accecanti tutte le stelle del suo cielo invisibile.“I won't spend a happy day 'til you're back in my arms”, ripetevo ancora dentro di me. Quelle parole si erano impadronite dello spazio che mi stava attorno. Lo avevano riempito. Bloccando ogni oggetto, come se il gelo che stava fuori, proprio per fissare quel dolore, si fosse allungato nella stanza con il suo maglio terribile. Lo stesso dolore che avevo sentito alla spalla e che era scomparso in un preciso istante. Come in una premonizione. Perché adesso avevo realizzato che quel braccio era rotto da sempre. Era quello di un abbraccio mancato, in cui mi ero disperatamente proteso per lungo tempo ma che Nikki non aveva neanche sentito. O che, forse, io mi ero solo illuso di offrirle. Così, continuavo a masticare il testo di quella canzone e a ripeterle silenziosamente ancora: “Non ho passerò un giorno felice finché non tornerai fra le mie braccia”.

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