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giampiero vigorito
Giampiero Vigorito
La prima biografia italiana di un genio della musica
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Copertina Libro Bacharach

BURT BACHARACH
THE BOOK OF LOVE
NELLA VITA E NEI RICORDI DEL PIÙ GRANDE GENIO DEL POP
AUTORE: GIAMPIERO VIGORITO
EDITORE: CONIGLIO EDITORE
COLLANA: SOUNDCHECK
PAGINE: 240 con due inserti di foto a colori
PREZZO: Euro 16,50

 

Estratti del libro

IL “BACHARACH REVIVAL” DEGLI ANNI NOVANTA...
Nella mia vita ho rincorso in tutti i modi le melodie più fuggevoli e affascinanti. Ho tentato di fissare in una manciata di accordi l’amarezza crepuscolare di un amore che sbiadiva, di scoprire la formula magica per raccontare le piccole estasi che si nascondono dietro il sorriso della donna che si ama, di riconoscere da un fascio di muscoli il cavallo che mi avrebbe portato a vincere come suo proprietario il Kentucky Derby o la Dubai World Cup. In tutti i modi, che si trattasse di una musica indimenticabile, del fascino imperscrutabile di una donna o di un purosangue vincente, ho capito che bisogna lasciare la parte principale del film della propria vita al caso. E’ tutto come in una partita di biliardo, non c’è che il profilo di una piuma tra la possibilità di finire in buca o di rimanere sullo spigolo estremo del tavolo da gioco. Il nostro viaggio sul rettangolo di panno verde di questo pianeta è manovrato da quell’insondabile alleanza tra il talento e il caso. Basta un soffio di vento per scompigliare tutto. Ho fatto musica per oltre 50 anni, correndo il rischio di rimanere intrappolato nel ruolo di languido eroe del pop sofisticato. Per lungo tempo le mie canzoni sono state considerate l’elegante fondale di un acquario, lo stereotipo mondano della “upper class” americana. Venivano sorseggiate insieme ai cocktail in smoking delle feste di Manhattan, inondavano come profumi gli ascensori del Plaza Hotel, sfilavano veloci nelle corse sull’ultimo modello di Mustang per i viali di Santa Monica, si tuffavano nelle piscine di Bel Air o di Malibù per poi affacciarsi dai balconi arrostiti dai tramonti della Costa Azzurra. Improvvisamente, come se ci fosse stato un passaparola, i REM, i Blur, gli Oasis, i Gene, i Cranberries, i Manic Street Preachers cominciarono a dedicarmi delle cover e a citarmi come maggiore ispiratore dei loro dischi. Questa volta le cose erano andate diversamente. Il rock si era guardato alle spalle e aveva deciso di lavarsi la coscienza. Grazie a quelle nuove star mi sono liberato dei bendaggi del processo di mummificazione per essere accolto come ispiratore della nuova rinascita del pop. Quei ragazzi mi avevano tirato giù dai sepolcrali trofei alla carriera, dagli Oscar e dai Grammy Award conquistati in passato, dalle polverose gallerie dei dischi di platino, per ridare un senso di giovinezza alla mia storia musicale. Avevano capito che, dietro la leggerezza del mio stile, si nasconde l’inquietudine di un uomo che ha cercato sempre di non eludere le proprie emozioni e di trasformare in fragile bellezza i frastuoni delle battaglie del suo cuore. Quei ragazzi mi avevano trattato come uno di loro. Il destino aveva alzato la sua voce. […] Così, proprio negli anni ‘90, l’invasione di cover dello “Zio d’America” ha cominciato ad intasare il traffico delle classifiche mondiali. Ancora una volta, dopo l’imprinting di Paul Weller, degli stessi Oasis o dei Blur (la tromba sincopata e l’orchestrazione sontuosa di “The Universal” era una loro spudorata dedica), è il Britpop a creare i maggiori ingorghi. Dopo la cover di “(They Long To Be) Close To You” dei Cranberries, i Gene hanno pubblicato la loro versione live di “I Say A Little Prayer” registrata davanti all’oceanico pubblico del festival di Glastonboury. Poi è stata la volta dei gallesi Manic Street Preachers che hanno reinterpretato “Raindrops Keep Falling On My Head” in una compilation di beneficenza per i profughi della Bosnia, battendo sul tempo molte altre band di culto come The Faming Lips e i Mercury Rev impegnate in una specie di rendez-vous collettivo dello stesso brano. I Manic Street Preachers mi hanno anche dedicato esplicitamente lo strumentale “Horses Under Starlight” (un’operazione che Mark Eitzel degli American Music Club aveva già fatto con “Saved”, una canzone scritta con la dichiarata speranza di vederla un giorno cantata da Barbra Streisand). Poi era arrivato il turno degli Ash, dei ragazzini irlandesi che, dopo aver gridato una muraglia di brani punk, hanno fatto dietrofront per registrare “Candy”, una luccicante canzone glamour ricamata intorno alla versione dei Walker Brothers della mia “Make It Easy On Yourself”. Brano che, nel ‘97, era già stato ripercorso in un decadente omaggio dai Divine Comedy di Neil Hannon. L’operazione degli Ash non era molto dissimile da quella dei belgi Hooverphonic che con “2 Wicky”, costruita intorno alle esalazioni fumogene di “Walk On By” di Isaac Hayes, avevano trovato posto nella colonna sonora del film di Bernardo Bertolucci Io Ballo Da Sola. Nella scena hip-hop i battiti palpitanti della storica cover dell’indimenticabile Isaac Hayes erano entrati nel patrimonio genetico della nuova musica nera diventando uno dei sample in assoluto più utilizzati (Notorious B.I.G., Slick Rick, MF Doom, Wu Tang Clan, Pete Rock e Ludacris). In Inghilterra la dance alternativa stava rilasciando con i suoi mantici di velluto le vibrazioni oscure della mia musica, estraendone il senso più notturno e sgranato. I Wild Bunch, il primo organico dei Massive Attack, aveva scaraventato nell’Empireo delle charts la voce di Shara Nelson con “The Look Of Love”, mentre i Portishead e gli Alpha sembravano essersi persi in una nottata di campionamenti di “The April Fools” o di “Alfie” davanti a un vecchio video di Dionne Warwick. Senza parlare dell’ennesima cover, qualche tempo dopo, di “I Just Don’t Know What To Do With Myself” ossidata da una band acida ed esplosiva come gli americani White Stripes. Versione poi rimbalzata nelle case di mezzo mondo attraverso la provocante esibizione di lap dance di Kate Moss in un infuocato videoclip in bianco e nero diretto da Sofia Coppola.

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